(pubblicato in «L’Ernesto. Rivista comunista», n. 4, 2002 (gennaio/febbraio), pp. 78-85; ripubblicato in Sergio Manes (a cura di), Il mondo dopo Manhattan, La Città del Sole, Napoli, 2002, pp. 135-152)
1. Marx e la globalizzazione
Ai giorni nostri la retorica del nuovo celebra i suoi trionfi. «Dopo Genova nulla può più essere come prima!». Trascorrono solo poche settimane dalle grandi manifestazioni contro i sedicenti 7 o 8 Grandi della terra e dalla brutale repressione poliziesca che ne consegue, ed ecco che, in seguito agli inauditi attentati terroristici in Usa, risuona un nuovo grido e trionfa una nuova cronologia: «Dopo Manhattan nulla può essere come prima!». Un mese dopo, l’incontro tra i dirigenti dei paesi membri dell’Apec e, in primo luogo, di Cina, Usa e Russia è l’occasione di un nuovo colpo di scena. A Shanghai – riferiscono «Liberazione»e «il manifesto» – le grandi potenze si sono unite in una coalizione compatta e corale, in una sorta di Santa Alleanza planetaria senza precedenti nella storia. E, dunque – se ne può dedurre -: «Dopo Shanghai nulla può più essere come prima!». Le svolte epocali incalzano ormai a ritmo mensile. Sono i miracoli della globalizzazione, a partire dalla quale – non si stanca di affermare o di suggerire una certa sinistra – così radicali sono i mutamenti intervenuti nel capitalismo e sulla scena mondiale da rendere del tutto obsoleta la lezione di Marx.
In realtà, la storia del capitalismo è la storia del processo di formazione del mercato mondiale. E’ così che Marx la descrive. E questo è un aspetto essenziale della sua grandezza come sociologo, economista, storico e filosofo. Ancora oggi, illuminanti sono le pagine da lui dedicate all’espansione dell’Occidente in Asia. Sotto l’onda d’urto «del vapore e del libero scambio made in England», più ancora che dei «militari britannici», e cioè della violenza militare diretta, le tradizionali «comunità familiari […] basate sull’industria casalinga» e «autosufficienti» cadono irrimediabilmente in crisi: «miriadi di laboriose comunità sociali, patriarcali e inoffensive» vengono «gettate in un mare di lutti, e i loro membri singoli privati a un tempo delle forme di civiltà tradizionali e dei mezzi ereditari di esistenza»[1]. Interi popoli sono investiti da una tragedia senza precedenti nella loro storia: è la «perdita del loro mondo antico, non compensata dalla conquista di un mondo nuovo»[2].
Marx ci fornisce qui una sintesi fulminante del processo di globalizzazione capitalistica.
2. La prima forma di populismo
Proprio perché, per i popoli via via investiti dalla globalizzazione, essa è la «perdita del loro mondo antico, non compensata dalla conquista di un mondo nuovo», si apre un ampio spazio per il rimpianto nostalgico del mondo antico e la sua trasfigurazione: per lo meno nel passato c’era un «mondo» di legami comunitari e di valori condivisi, un mondo non ancora investito dalla lacerazione e dalla crisi e quindi fornito di senso. E’ qui che si annida la tentazione populista, ed essa emerge non solo nel mondo coloniale o semicoloniale propriamente detto ma nel cuore stesso dell’Occidente e della metropoli capitalistica, man mano che la grande industria sottomette al suo controllo le aree agricole e manda in rovina l’artigianato e l’industria domestica tradizionale.
Si prenda una personalità come Sismondi. Simpatetico con le sofferenze del popolo, al fine di evitarle o alleviarle, egli sembra voler suggerire l’imposizione di un freno allo sviluppo della produzione, in modo da evitare l’insorgere della sovrapproduzione e della crisi. L’introduzione di nuovi e più potenti macchinari comporta sì un «incremento di produttività» ma finisce col distruggere il precedente equilibrio senza che ne derivi alcun vantaggio reale e duraturo. E’ un quadro desolante: i «vecchi telai andranno perduti»[3]. In questo senso, Sismondi - osserva Marx - «si rifugia spesso nel passato, diventa laudator temporis acti»[4], un nostalgico del buon tempo antico. Nel suo «romanticismo economico» - incalza a sua volta Lenin - Sismondi si rivela inconsolabilmente afflitto dalla «distruzione del paradiso dell’ottusità e dell’abbrutimento patriarcale della popolazione rurale»[5]. Nell’esprimersi così, il rivoluzionario russo ha chiaramente presente la lezione di Marx il quale, con riferimento questa volta all’India, mette in guardia contro la tendenza a rimpiangere e idealizzare una «vita priva di dignità, stagnante, vegetativa», una società nell’ambito della quale la miseria e l’assoggettamento delle grandi masse vi appaiono come «un destino naturale immutabile» e le «piccole comunità sono contaminate dalla divisione in caste e dalla schiavitù»[6].
Se il marxismo e il leninismo si sono sviluppati nel corso della lotta contro il populismo, questo sembra oggi godere di una nuova giovinezza. Ecco in che modo «Liberazione» riferisce di una mostra sul «Tibet perduto»:
«”La caccia, la pesca, persino l’uccidere un insetto o scavare ‘madre terra’, divennero azioni da non commettere, mentre mulini di preghiere sorgevano lungo tutti i corsi d’acqua”. Quando si arriva a Palazzo Magnani, a Reggio Emilia, per vedere la splendida mostra fotografica di Fosco Maraini sul “Tibet perduto”, sono queste le parole affisse al muro che colpiscono di più il visitatore. Descrivono un popolo unico […] Persone straordinarie i tibetani, abituati a vivere ad oltre 4000 metri di quota, in uno scenario naturale incredibile, dove le malattie quasi non esistono, perché virus e batteri non sopravvivono a quelle altezze»[7].
E’ un esempio da manuale dell’atteggiamento denunciato da Marx e Lenin. Una società «contaminata dalla divisione in caste e dalla schiavitù», che istituiva una barriera insormontabile tra servi e signori, discriminandoli nettamente dalla nascita alla morte o oltre (dando in pasto agli avvoltoi i corpi dei primi e riservando la dignità della cremazione o tumulazione solo al corpo dei secondi), una tale società conosce ora una straordinaria e mitologica trasfigurazione. Nell’ambito di tale ordinamento la miseria, la denutrizione, le malattie e la morte precoce erano subite, per usare sempre il linguaggio di Marx, come «un destino naturale immutabile»; ma per il giornalista o poeta sotto l’incantesimo del populismo è motivo ulteriore di entusiasmo il fatto che i «mulini di preghiere» sbarrassero la strada ai blasfemi lavori impegnati a violare e «scavare “madre terra”» e ad accrescere la produzione agricola. Come Lenin ha chiarito, il populista ritiene che la «la luce splende solo dall'Oriente mistico, religioso»[8]. In effetti, in certi articoli di «Liberazione» e del «Manifesto» il Dalai Lama tende per l’appunto a prendere il posto di Lenin (e di Marx).
Il populismo svolge un ruolo importante nella malevolenza e nell’ostilità con cui questi giornali e ambienti politici guardano alla Cina. A suscitare orrore è in primo luogo l’«ossessione della crescita quantitativa»[9]. Sì, Marx e Engels sottolineano che «il proletariato si servirà del suo potere politico» e del controllo dei mezzi di produzione in primo luogo «per accrescere, con la più grande rapidità possibile, la massa delle forze produttive». In difficili condizioni, dati il ritardo storico accumulato e il permanente semi-embargo tecnologico imposto dagli Usa, la Cina cerca di sviluppare le «industrie nuove», che non hanno più una base nazionale e la cui «introduzione» - sottolinea sempre il Manifesto del partito comunista – è «una questione di vita e di morte per tutte le nazioni civili»[10]. Ma tutto ciò è solo motivo di scandalo per il populista, il quale guarda con indifferenza o fastidio al mondo profano della «quantità»: «Un bambino nato a Shanghai nel 1995 aveva meno probabilità di morire nel suo primo anno di vita, più probabilità di imparare a leggere e scrivere e poteva contare su una durata della vita superiore di due anni (settantasei anni) a quella di un bambino nato a New York»[11]. Ora il governo cinese ha messo in atto una politica di giganteschi investimenti per estendere anche alle regioni interne il prodigioso sviluppo conseguito dalle regioni costiere. Risultati importanti sono già sotto gli occhi di tutti: il Tibet «ha registrato una crescita economica tre volte più veloce di quella degli Stati Uniti negli anni del boom tra la fine dell’amministrazione Reagan e l’inizio dell’amministrazione Bush»[12]. Epperò sviluppo economico-sociale, accesso all’istruzione, avvento della modernità con la sua carica emancipatrice, prolungamento della durata media della vita, tutto ciò sembra essere irrilevante per il populista immalinconito dalla nostalgia per i «vecchi telai» o, peggio, per i «mulini di preghiere».
Si comprende il rancore tutto particolare riservato alla figura di Deng Xiaoping. Questi ha avuto il merito di criticare lo slittamento populistico, che portava la Rivoluzione Culturale ad inseguire l’ideale di «un ascetismo universale e un rozzo egualitarismo», duramente criticato dal Manifesto del partito comunista[13]. E invece – ha chiarito Deng - «non ci può essere comunismo col pauperismo o socialismo col pauperismo»; è una contraddizione in termini parlare di «comunismo povero»[14]. Il socialismo e il comunismo non hanno nulla a che fare con l’uguaglianza nella miseria e nell’austerità e semplicità dei costumi: se anche per tutto un periodo continua ad essere presente il problema di una distribuzione in qualche modo giusta della penuria, in primo luogo «socialismo significa eliminazione della miseria»[15]. Il problema principale è dunque costituito dallo sviluppo il più rapido possibile delle forze produttive. E, invece, proprio in questo sviluppo il populista lamenta la perdita, per dirla con Marx, di una mitica «pienezza originaria»[16], ovvero denuncia, per dirla con Lenin, il trionfo della volgarità e dei disvalori dell’«Occidente materialista»[17].
3. Populismo e «cinismo da cretino»
Oltre che nell’ingenua trasfigurazione del buon tempo antico e di rapporti sociali rurali e arretrati, il populismo può trovare espressione in forme più «sofisticate». Si prenda Proudhon: la proprietà è un furto - è il filo conduttore del suo libro più celebre. Un’unica linea di demarcazione divide l’intera umanità in proprietari e non proprietari, ladri e derubati, ricchi e derelitti. E’ l’unica contraddizione realmente rilevante. Proudhon bolla come «pornocrazia» il movimento femminista ai suoi albori. Analogamente deride e condanna le aspirazioni nazionali dei popoli oppressi come espressione di attaccamento oscurantista a pregiudizi obsoleti. In Polonia, la lotta per l’indipendenza e la resurrezione nazionale vede la partecipazione anche di borghesi e persino di nobili. La cosa non stupisce, dato che a subire l’oppressione è la nazione nel suo complesso. Ma ciò è un motivo di scandalo per il populista incline a pensare che l’unica contraddizione reale sia quella tra poveri e ricchi, tra «popolo» umile e incorrotto da un lato e i grandi e i potenti (borghesi e nobiliari) dall’altro. Di qui l’atteggiamento beffardo e sarcastico che Proudhon assume nei confronti dei movimenti nazionali e, in particolare, di quello polacco. Duro è il giudizio di Marx, che parla a tale proposito di «cinismo da cretino», per di più al servizio o alla coda dell’imperialismo zarista o, in altri casi, del bonapartismo di Napoleone III[18].
Al populista francese siamo condotti a pensare, allorché leggiamo Toni Negri sbeffeggiare «gli ultimi sciovinisti della nazionalità»: così sono bollati quanti si attardano a difendere l’indipendenza e la sovranità nazionale contro la realtà di un Impero planetario, nell’ambito del quale l’unica contraddizione sarebbe quella tra «il potere sovrano che governa il mondo» da un lato e la «moltitudine» rivoluzionaria dall’altro. Assistiamo così ad un paradosso. Oggi è facile ritrovare presso autori borghesi il riconoscimento del fatto che nel mondo è in atto un processo di «ricolonizzazione»: in questi termini si esprime, ad esempio, Carlo Jean, docente della Luiss e generale degli alpini. D’altro canto, ad affermare in modo esplicito il carattere benefico e necessario della ricolonizzazione è il teorico ufficiale della «società aperta» e cioè sir Karl Popper: «Abbiamo liberato questi Stati [le ex-colonie] troppo in fretta e troppo semplicisticamente»; è come «abbandonare a se stesso un asilo infantile». Per fortuna, qualche tempo fa il «New York Times», dando la parola allo storico Paul Johnson, poteva annunciare: «Finalmente torna il colonialismo, era ora»[19].
Dunque, non ci dovrebbero essere dubbi sulla permanente attualità della questione nazionale. Anzi, a ben guardare, essa si sta inasprendo. Basta guardare le guerre che si sono succedute a partire dal crollo dell’Unione Sovietica. 1991: la guerra contro l’Irak e l’imposizione di un protettorato su un paese di decisiva importanza geoeconomica e geopolitica sono state formalmente autorizzate dall’Onu. 1999: questa autorizzazione viene considerata superflua nel corso della guerra contro la Jugoslavia; ora si teorizza il diritto sovrano della Nato a scatenare «guerre umanitarie», le quali peraltro non si limitano ad imporre il protettorato ma procedono sino allo smembramento del paese aggredito. 2001: nel dichiarare che il terrorismo è presente in oltre 60 paesi, nel decidere sovranamente chi sono i terroristi e nel preannunciare di essere pronta a colpire chiunque a qualsiasi titolo appoggi o tolleri il terrorismo, o sia indulgente e neutrale nei suoi confronti, di fatto Washington si arroga il diritto di intervenire in ogni angolo del mondo, senza tener conto né dell’Onu né della Nato. Se poi si tiene presente che esponenti dell’amministrazione americana hanno fatto trapelare la possibilità del ricorso ad armi nucleari, più o meno tattiche, allora una conclusione si impone: gli Stati Uniti tendono a far pesare una minaccia economica (l’embargo ai suoi diversi livelli), militare e persino nucleare su ogni paese del mondo. E’ stato messa in piedi una macchina bellica di un’efficienza implacabile anche per quanto riguarda il dispositivo politico-ideologico: l’amministrazione americana può bollare come terroristica la resistenza palestinese, o alcune sue correnti, ed ecco che risultano fuorilegge Stati come la Siria, l’Iran, l’Iraq ecc.; oppure può consacrare quali «combattenti per la libertà» le forze secessioniste che essa cerca di alimentare in questo o in quel paese, ed ecco che una repressione giudicata eccessiva da Washington si configura come un crimine, che apre le porte ad un giusto e severo intervento «umanitario». Una lotta sanguinosa è in corso nel Kashmir conteso tra India e Pakistan. La guerriglia può essere bollata come terrorismo, ed allora diventa un legittimo bersaglio il Pakistan che l’appoggia; oppure essa può essere innalzata alla dignità di lotta di liberazione, ed allora diventa un legittimo bersaglio l’India che, reprimendola duramente, si macchia di crimini contro l’umanità. Consapevoli del rischio che corrono, i due possibili bersagli s’impegnano in una gara per contendersi i favori di Washington, i favori dell’aspirante sovrano planetario. E’ necessario ribadirlo con forza: la questione nazionale non è mai stata così acuta.
Ma il peso crescente delle multinazionali non riduce ad un guscio vuoto la sovranità statale? Nel 1917, nell’Imperialismo fase suprema del capitalismo, Lenin osserva: «Il capitale finanziario è una potenza così ragguardevole, anzi si può dire così decisiva, in tutte le relazioni economiche e internazionali, da essere in grado di assoggettarsi anche paesi in possesso della piena indipendenza politica»[20]. Ciò però non significa che sia divenuta irrilevante la lotta contro l’assoggettamento politico. I paesi che godono dell’indipendenza politica cercano di consolidarla e renderla reale mediante la conquista dell’indipendenza economica e così si scontrano con l’imperialismo che, in situazioni di crisi, pur di mantenere la sua egemonia, è pronto a liquidare la stessa indipendenza politica. A spiegare la tesi del dileguare della questione nazionale è solo l’influenza che populismo e neo-proudhonismo esercitano nell’ambito del movimento anti-globalizzazione.
4. Purismo populista e fuga dalla complessità
Ferma restando la centralità della lotta per la difesa e la conquista della sovranità statale, in che modo essa si manifesta ai giorni nostri? Negli anni ‘60 del Novecento ha conosciuto una certa fortuna la tesi di Lin Piao, che, nell’appoggiare le lotte di liberazione nazionale in atto nel Terzo Mondo, auspicava il progressivo accerchiamento della città capitalistica ad opera di una campagna povera e rivoluzionaria. Anche in questa visione è evidente la presenza del populismo. Si trattava della generalizzazione arbitraria di un bilancio storico peraltro errato della rivoluzione cinese. Il partito comunista era giunto alla vittoria non già limitandosi a stimolare e dirigere le lotte dei contadini poveri, ma sapendosi mettere anche alla testa della lotta della nazione cinese nel suo complesso contro l’invasione e l’occupazione militare giapponese e costruendo un largo fronte unito di cui la borghesia nazionale era parte integrante ed essenziale. Per di più, il movimento di resistenza e di liberazione nazionale non aveva esitato ad utilizzare le rivalità e i conflitti tra le grandi potenze imperialistiche. Una visione che a livello internazionale veda agire solo la contraddizione tra paesi deboli e paesi forti, paesi poveri e paesi ricchi, tra Terzo Mondo e metropoli capitalistica è da considerare una riedizione in forma nuova del populismo.
Intanto, nell’ambito del Terzo Mondo spicca un paese che sta fuoriuscendo dal sottosviluppo e che, anche a voler astrarre dal fatto che esso continua ad essere diretto da un Partito comunista, già con le sue dimensioni e col tasso spettacolare di crescita della sua economia, è avvertito come una minaccia dagli Usa. Ma lasciamo pure da parte la Cina. Concentriamo la nostra attenzione su Usa, Russia, Giappone, Germania, Francia ecc. e Unione Europea nel suo complesso. Si tratta senza eccezione di paesi capitalisti, che però non possono essere messi sullo stesso piano. La cosa è immediatamente evidente per la Russia. A suo tempo, un autorevole giornalista e studioso non ha esitato a definire Eltsin come un Quisling, cioè come dirigente di uno Stato solo formalmente sovrano e in realtà fantoccio al servizio di una potenza imperiale esterna[21]. E’ probabile che in tale definizione ci sia un elemento di esagerazione. Resta il fatto che la Russia, sempre più incalzata dall’espansione della Nato ad Est, deve affrontare spinte separatiste e secessioniste, spesso alimentate dall’esterno e che non a caso si manifestano lungo le rotte strategiche del petrolio.
Ma neppure i paesi di più consolidata tradizione capitalistica e imperialistica possono essere messi sullo stesso piano. Contro la tendenza diffusa anche tra i comunisti a condannare in modo equanime e imparziale l’imperialismo americano, giapponese ed europeo, conviene ricordare la conversazione di Mao con una giornalista americana di orientamento comunista (Anne Louise Strong). Siamo nell’agosto 1946: lo scoppio della guerra fredda stimola una visione bipolare del mondo, in base alla quale al campo socialista ferreamente unificato si contrappone un campo capitalista unificato in modo non meno ferreo. Ma ecco che il dirigente del partito comunista cinese sviluppa un’analisi del tutto diversa:
«Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica sono separati da una zona molto vasta che comprende numerosi paesi capitalistici, coloniali e semicoloniali in Europa, in Asia e in Africa. Fino a quando i reazionari statunitensi non avranno assoggettato questi paesi, un attacco contro l’Unione Sovietica è fuori questione. [Gli Stati Uniti] controllano da lungo tempo l’America centrale e meridionale, e cercano di porre sotto il loro controllo anche l’intero Impero britannico e l’Europa occidentale. Con vari pretesti, gli Stati Uniti adottano provvedimenti unilaterali su vasta scala ed installano basi militari in molti paesi [...] Attualmente [...] non l’Unione Sovietica, ma i paesi in cui queste basi militari vengono installate sono i primi a subire l’aggressione USA»[22].
Come si vede, Mao non esita a far ricorso alla categoria di «aggressione» per definire il rapporto che l’imperialismo statunitense istituisce con le grandi potenze capitalistiche e persino con «l’Impero britannico». In modo analogo, alcuni anni più tardi, Stalin chiama i partiti comunisti dell’Europa occidentale a «risollevare» la «bandiera della indipendenza nazionale e della sovranità nazionale [...] gettata a mare» dai governanti borghesi[23]. Questi, cioè, vengono criticati in primo luogo non già in quanto imperialisti in prima persona ma in quanto succubi dell’imperialismo americano.
Alle spalle sia di Mao che di Stalin agisce forse la lezione di Lenin. Questi, nel ribadire nel 1916 il carattere imperialista del primo conflitto mondiale allora in pieno svolgimento, osserva tuttavia che se esso fosse terminato «con vittorie di tipo napoleonico e con la soggezione di tutta una serie di Stati nazionali capaci di vita autonoma [...], allora sarebbe possibile in Europa una grande guerra nazionale»[24]. La situazione qui appena evocata si verifica in realtà nel corso del secondo conflitto mondiale: la vittoria di tipo napoleonico inizialmente conseguita dal Terzo Reich pone all’ordine del giorno guerre di liberazione nazionale nel cuore stesso dell’Europa. E’ su questa base che si sviluppa la Resistenza non solo in Jugoslavia, Albania, Cecoslovacchia ma anche in Francia e, più tardi, in Italia.
Per comprendere adeguatamente l’odierna situazione internazionale, è necessario prendere atto che nel 1991 gli Usa hanno conseguito una vittoria che rassomiglia ad una vittoria di tipo napoleonico. Così grave è la sconfitta dell’Unione Sovietica che dalla guerra fredda essa ne è uscita smembrata: parti cospicue del suo precedente territorio nazionale non solo si sono costituite come Stati indipendenti, ma sono entrate a far parte o si apprestano a entrare a far parte del sistema di alleanze diretto da Washington (è il caso degli Stati baltici, della Georgia ecc.). Per quanto riguarda l’Unione Europea e il Giappone, la loro tecnologia militare sta subendo un ritardo sempre più grave rispetto alla tecnologia militare febbrilmente sviluppata dagli Usa e incessantemente sperimentata attraverso una serie di guerre «limitate»: è in atto quella che gli strateghi del Pentagono definiscono orgogliosamente come la RMA, ovvero come la Revolution in Military Affairs.
Pur assai rilevante, l’aspetto militare passa in secondo piano rispetto ad un altro forse ancora più importante. Subito dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti introducono in Giappone una Costituzione che fa professione di un radicale antimilitarismo: nell’art. 9 trova espressione in modo solenne la rinuncia al tradizionale «diritto sovrano della nazione» alla guerra, all’uso della forza e alla minaccia dell’uso della forza. Ora è Washington a suggerire quando questo articolo può e deve essere considerato superato e aggirabile. Analoghe considerazioni possono essere fatte a proposito della Germania. Il rapporto che gli Usa intrattengono coi loro «alleati» è caratterizzato dalla schiacciante superiorità che i primi detengono non solo in campo militare ma anche, e forse ancora di più, in campo ideologico e politico-diplomatico: in ultima analisi è la Casa Bianca a detenere le chiavi della legittimazioni del ricorso alla forza da parte del Giappone e della Germania, a decidere se tale ricorso alla forza è espressione della nuova realtà «democratica» di quei due paesi oppure rinvia ad una sciagurata tradizione messa in stato d’accusa dai tribunali internazionali di Tokyo e Norimberga. Con la vittoria conseguita nel corso della seconda guerra mondiale e della guerra fredda, gli Stati Uniti hanno conseguito il potere di «scomunicare» i loro nemici prima ancora che di distruggerli.
Oltre alla Cina e a Cuba, a rifiutarsi di mettere sullo stesso piano gli Stati imperialisti o con potenzialità imperialiste, sono gli stessi movimenti rivoluzionari impegnati in lotte assai difficili. Ciò non vale solo per la resistenza palestinese. Si veda la recente presa di posizione di un dirigente delle Farc (Forze armate rivoluzionarie della Colombia):
«L’atteggiamento europeo rispetto al Piano “gringo” contro la Colombia è stato prudente […] Ma l’Europa può avere un ruolo ancora più decisivo, non partecipando né apertamente, né in maniera nascosta alle politiche decise a Washington. La verità è che l’Europa può e deve avere un maggiore protagonismo in America Latina e nei Caraibi»[25].
In Italia i comunisti sono in una situazione particolarmente favorevole per comprendere la duplice natura del paese in cui vivono e lottano. Se da un lato, con D’Alema prima ancora che con Berlusconi, l’Italia ha assunto pose mussoliniane e da grande potenza imperiale, dall’altro essa è stata devastata dalla strategia della tensione e dalle stragi architettate a Washington e continua a subire una condizione di sovranità limitata, come è ulteriormente confermato dalla vicenda del Cermis (sottratti alla giurisdizione italiana, i militari americani godono in pratica dell’immunità). E cioè, se da un lato partecipa in funzione subalterna a infami aggressioni imperialiste, dall’altro l’Italia è essa stessa bersaglio dell’«aggressione» dell’imperialismo Usa (per riprendere l’analisi e la categoria fatte valere nel 1946 da Mao Tsetung). Sia pure con opportune cautele, considerazioni analoghe potrebbero essere fatte valere per l’Unione Europea nel suo complesso che – non dimentichiamolo – continua a subire senza soverchie proteste lo spionaggio economico e militare messo in atto da Washington tramite Echelon.
In conclusione, come emerge dalla lettura della storia del movimento comunista internazionale, dalla prese di posizione dei movimenti rivoluzionari e, in primo luogo, dall’analisi concreta della situazione concreta, mettere sullo stesso piano le grandi potenze capitalistiche non è affatto sinonimo di rigore rivoluzionario e comunista. Conviene piuttosto chiedersi se in tale atteggiamento purista non ci sia un residuo di populismo, che avverte come elemento di disturbo ogni analisi che fuoriesca dallo schema della contraddizione unica (quella tra umili e potenti) e come elemento di contaminazione qualunque rapporto che vada al di là del mondo degli umili. Se anche la contraddizione umili/potenti dovesse ora assumere una forma statuale e configurarsi come la contraddizione tra paesi poveri del Terzo Mondo e paesi ricchi e imperialisti, se la si continua a far valere come una contraddizione unica, si rimane pur sempre nell’ambito del populismo.
5. Il carattere pervasivo del populismo
Siamo in presenza di una corrente di pensiero, di una tendenza che si manifesta nei più diversi ambiti problematici. Per rendercene conto ritorniamo a Lenin. Il Che fare? è pressappoco contemporaneo alla polemica già vista contro il romanticismo economico, contro il populismo. Non a caso nel Che fare? svolge una funzione essenziale la confutazione della tesi secondo la quale presso le classi subalterne, presso il popolo in quanto tale, sarebbe depositata la coscienza rivoluzionaria, una superiore visione del mondo, non contaminata dai disvalori borghesi. E invece per Lenin la coscienza rivoluzionaria è una costruzione che implica il contributo decisivo degli «intellettuali borghesi» e l’assunzione di un’eredità teorica che è in larga parte il lascito di intellettuali borghesi (si pensi a Hegel). D’altro canto, «per la loro posizione sociale, gli stessi fondatori del socialismo scientifico contemporaneo, Marx ed Engels, erano degli intellettuali borghesi»[26]. E a loro volta già Marx ed Engels, mentre da un lato sottolineano la funzione controrivoluzionaria spesso giocata dal sottoproletariato, dagli «straccioni», dall’altro richiamano l’attenzione sul contributo che alla formazione della coscienza e del movimento rivoluzionario forniscono i transfughi della borghesia (in primo luogo gli intellettuali). Non c’è posto qui per il mito populista in base al quale la coscienza rivoluzionaria, la prospettiva di una società più giusta, sarebbe il dato naturale e immediato del popolo, degli umili, degli oppressi (ovvero della classe operaia: l’operaismo è una variante del populismo). L’odierno fastidio per la forma-partito e la tendenza a sciogliere il partito comunista nel movimento del «popolo di Seattle» sono una delle forme in cui si manifesta il ritorno del populismo.
Analizzando il movimento populista americano della seconda metà dell’Ottocento, un eminente storico statunitense ha osservato che a caratterizzarlo è anche «la concezione della storia come cospirazione»[27]. Dato che il popolo è l’incarnazione naturale e immediata dei più alti valori umani, il regno della giustizia e della felicità è a portata di mano: basta solo neutralizzare i potenti e i traditori. Di rado è stato notato il peso che questa visione del mondo ancora oggi esercita nell’ambito della sinistra occidentale. Negli anni attorno al ‘68 ha conosciuto una notevole diffusione un libro di Renzo Del Carria che già nel titolo (Proletari senza rivoluzione) forniva la chiave di lettura della storia del nostro paese dal Risorgimento alla Resistenza. Perché la lotta contro il fascismo non si era conclusa con l’avvento del socialismo? Ma è chiaro: Stalin a Yalta e Togliatti a Salerno l’avevano impedito. Risposte analoghe venivano fornite per la Settimana rossa del 1914, per i moti del 1898 e per quelli ancora precedenti. Queste risposte semplicistiche, in un libro peraltro interessante e ricco, si possono spiegare solo con l’influenza del populismo: sempre animate dall’amore della giustizia, le masse finivano regolarmente con l’essere abbandonate o tradite, nel momento cruciale, da dirigenti e burocrati.
Per rendersi conto dell’influenza tuttora esercitata da questa ideologia o visione del mondo, poniamoci ora un problema di carattere più generale: perché il regime scaturito dall’Ottobre bolscevico ha deluso prima le speranze di molti, che pure avevano salutata con entusiasmo la sua nascita, e poi è risultato sconfitto nello scontro col mondo capitalista? «Chi ha ucciso la rivoluzione?» - titolava qualche tempo fa «Rifondazione», l’organo teorico di Rifondazione Comunista pubblicato come supplemento a «Liberazione». Era una domanda retorica, ma per chi ancora avesse avuto dubbi, a fugarli provvedeva in prima pagina una foto di Stalin, che sembrava farsi beffe della rivoluzione da lui assassinata con fredda e cosciente determinazione. Nel dare questa «spiegazione» Rina Gagliardi sapeva di essere in sintonia con larghi settori della sinistra italiana e occidentale. In effetti, il populismo ha conseguito un tale successo da diventare luogo comune.
Come devono configurarsi i rapporti politici, economici e sociali dell’«ordine nuovo» chiamato a prendere il posto del capitalismo? Attraverso quali processi possono e devono essere realizzati? Quali sono le priorità e in che modo può essere neutralizzata e sconfitta la formidabile coalizione di forze impegnate a perpetuare o restaurare l’antico regime? Bisognerebbe partire da queste domande per comprendere i dubbi, le scelte, le oscillazioni, i ripensamenti, le contraddizioni, i conflitti, gli errori e i crimini di un gruppo dirigente o, al suo interno, di questa o quella personalità. Ma di questa analisi non avvertono alcun bisogno i populisti, i quali si cullano in una confortevole certezza: il popolo, le masse sanno istintivamente qual è il regno della libertà e della giustizia e vi aspirano con tutte le loro forze; se esso non si realizza, è chiaro che è intervenuto un tradimento, il tradimento di un individuo assetato di potere che non condivide i generosi ideali del mondo degli umili. Il «traditore» o l’assassino» della rivoluzione nell’Unione Sovietica è Stalin, in Cina è Deng. Più problematica si presenta l’individuazione del malfattore in paesi come la Jugoslavia o il Vietnam; ma non per questo il populista si scoraggia e rinuncia al mito della «cospirazione».
Lo studioso statunitense precedentemente citato fa notare che «l’utopia populista è situata nel passato, non nel futuro»[28]. E’ un tratto che possiamo riscontrare anche nell’odierno populismo, presente in movimenti e partiti che pure si richiamano al comunismo. Certo, il progetto rivoluzionario dovrebbe per definizione rinviare al futuro; senonché, allorché analizzano le rivoluzioni storicamente verificatesi, i populisti individuano il momento magico sempre e solo nel passato, in uno stadio che subito dilegua per l’intervento di potenti e prepotenti, di traditori estranei al popolo e agli ideali di libertà e di giustizia che immancabilmente lo animano. D’altro canto abbiamo visto «Liberazione» dare talvolta voce al populismo, ben più radicale, di coloro che scrivono o poetano sotto l’incantesimo del «Tibet perduto», cioè del Tibet pre-rivoluzionario, feudale e schiavista.
I populisti di sinistra talvolta si richiamano alla Rivoluzione Culturale. In particolare amano agitare una parola d’ordine che, dal punto di vista marxista, è particolarmente discutibile. «Ribellarsi è giusto»! Come se la storia non fosse costellata di ribellioni reazionarie, ad esempio quella dei proprietari di schiavi nel Sud degli Usa, e come se queste ribellioni non fossero spesso scandite da una fraseologia libertaria! Abbiamo a che fare in realtà con una parola d’ordine che ci riconduce al populismo. Rinunciando ad un’analisi di classe, essa implica una dicotomia popolo/governanti ovvero umili/potenti, nell’ambito della quale è sempre il potere a rappresentare il momento negativo.
Ad una sorta di populismo si è ridotto anche il «trotskismo» dei giorni nostri. Solo così si può spiegare il fatto che esso vada alla ricerca disperata di qualsiasi movimento di massa, anche se di segno chiaramente reazionario, per ribattezzarlo in chiave rivoluzionaria. Assimilato a Quisling da un autorevole giornalista e studioso della Russia, Eltsin è stato invece a suo tempo celebrato come il protagonista di una rivoluzione antiburocratica da parte di certi ambienti «trotskisti». Se vittoriosi, i moti di Piazza Tien An Men del 1989 avrebbero significato l’ascesa al potere di un Eltsin cinese, ma anche in questo caso non mancano i trotskisti che gridano alla rivoluzione tradita e repressa! Una rivoluzione di cui sarebbero stati protagonisti studenti che portavano in trionfo l’effige della Statua della Libertà, e che si sarebbe verificata nello stesso momento in cui l’Occidente capitalista e imperialista trionfava in Europa orientale, e in tutto il mondo i partiti comunisti si affrettavano, l’uno dopo l’altro, a cambiare nome. A questi miracoli si può credere solo a condizione di essere populisti, a condizione cioè di rinunciare all’analisi laica delle classi e della lotta di classe per sostituirla con la credenza mitologica nel valore comunque salvifico del «popolo» e delle «masse».
Ho parlato di «trotskisti», facendo costante ricorso alle virgolette, al fine di distinguere la caricatura farsesca dall'originale tragico cui essa pretende di richiamarsi. Certo, il pericolo dello slittamento populistico è ben presente nel pensiero di Trotski, con la sua ossessione a spiegare col ruolo infausto di burocrati ben pasciuti le difficoltà e gli arretramenti, veri o presunti, di una rivoluzione portata avanti da masse sempre disposte a qualsiasi sacrificio, come se nella storia non si fossero mai verificate situazioni in cui il burocrate di partito e di Stato risulta più avanzato del «popolo»! E, tuttavia, enorme è la differenza che separa Trotski dai suoi sedicenti seguaci di oggi. In un momento storico che sembrava caratterizzato dall'avanzata irresistibile della rivoluzione, egli poteva ben sperare in una radicalizzazione «antiburocratica» della rivoluzione russa. Ma non si sarebbe mai sognato di legittimare come rivoluzionario Eltsin o i dirigenti dell'Uck alimentati e coccolati dalla Nato, così come non s'era mai sognato di definire rivoluzionari le bande vandeane del cardinale Ruffo! D’altro canto, Trotski non aveva esitato a reprimere, e anche con particolare brutalità, stando almeno alle accuse dei suoi avversari, una rivolta come quella di Kronstadt, pure scoppiata agitando la parola d’ordine del ritorno all’originaria democrazia sovietica, calpestata dal monopolio del potere usurpato e detenuto dai burocrati bolscevichi.
Se per un verso, in ragione della sua indulgenza per la frase antiburocratica, presenta qualche punto di contatto col populismo, per un altro verso Trotski è, fra i dirigenti bolscevichi, colui che ha sviluppato la critica più lucida e più vigorosa contro la visione del socialismo come socializzazione della miseria, cioè contro un aspetto essenziale dell’odierno populismo «comunista» La ricostruzione di un punto di vista marxista e comunista, con la neutralizzazione delle influenze populiste, comporta dunque il superamento delle vecchie polemiche tra stalinismo e trotskismo così come delle polemiche altrettanto obsolete tra titoismo e antititoismo ovvero tra maoismo e antimaoismo. Bisogna saper accogliere in un ideale pantheon rivoluzionario Trotski e Stalin assieme a Lenin e Bucharin; Tito e le sue vittime fedeli al Cominform e all’URSS; Mao assieme a Liu Shao-chi e a Deng Xiaoping. Sono stati tutti protagonisti di un grandioso processo di emancipazione e, al tempo stesso, di una grande tragedia storica. Così come, per quanto riguarda la rivoluzione francese, in un ideale pantheon c’è posto per Danton così come per Robespierre e i suoi «arrabbiati» critici di sinistra, tutti protagonisti e vittime di un altro grandioso processo di emancipazione e di un’altra grande tragedia storica.
6. Il mito populista e qualunquista della «nuova Yalta»
Negli sviluppi della «guerra contro il terrorismo», e soprattutto nell’incontro di Shanghai tra Jiang Zemin, Bush e Putin, i populisti hanno visto la piena conferma della loro analisi: dileguate definitivamente le contraddizioni e i conflitti tra le grandi potenze, assisteremmo all’avvento di un mondo che vedrebbe da un lato i potenti del pianeta, ormai coalizzati in un’unità corale e senza incrinature, e dall’altro i diseredati, gli esclusi, gli umili. Contro la «nuova Yalta» si erge soltanto il «popolo di Seattle»: è questa la tesi proclamata da certi articoli di «Liberazione» e del «manifesto».
Ma ora proviamo a sfogliare la grande stampa d’informazione, italiana e internazionale. Con riferimento in particolare alla Russia, alla Gran Bretagna e alla Germania, l’«International Herald Tribune» già nel titolo a tutta pagina osserva: «I paesi-guida dell’Europa utilizzano la crisi afghana per rafforzare il loro ruolo mondiale»[29]. Il «Corriere della Sera» così giustifica e sollecita la partecipazione italiana alla guerra: «Ogni governo deve certo misurare i rischi e tener conto degli umori di casa, ma con l’avvento delle “coalizioni flessibili” chi vuole ottenere voce in capitolo deve saper prendere l’iniziativa e pretendere un ruolo prima che vengano distribuite patenti di merito […] Quel che dobbiamo invece riconoscere, piaccia o non piaccia, è che un conflitto armato disegna sempre nuove gerarchie mondali di potere e di influenza […] Ora l’Italia deve rincorrere, non perché ami la guerra ma perché ha capito quanto può costare non farla»[30]. Come si vede, persino per quanto riguarda l’Occidente, la convinta partecipazione alla spedizione punitiva contro l’Afghanistan non è in alcun modo la fine della rivalità e della contesa per l’acquisizione delle sfere d’influenza e dell’egemonia.
Ma oggi la contraddizione più acuta è ovviamente un’altra. Riapriamo l’«International Herald Tribune». Ecco un altro titolo a tutta pagina: «la svolta politica di Pechino sfida l’influenza americana in Asia»[31]. Chi ancora non avesse capito può trarre profitto dalla lettura, questa volta, del settimanale tedesco «Die Zeit»: «Sotto molti aspetti, a partire dalla guerra in Afghanistan, tra Pechino e Washington un conflitto in vecchio stile tra grandi potenze è diventato persino più probabile di un autentico avvicinamento»[32]. Come si vede, non c’è traccia qui dell’abbraccio sino-americano di cui favoleggiano i populisti. Da un lato la Cina prende atto con sollievo che, almeno per qualche tempo, Washington difficilmente potrà seguire la raccomandazione dell’«esperto» statunitense, William D. Shingleton, che invita l’amministrazione del suo paese a far tesoro dell'esperienza dello smembramento dell'URSS per «affrontare in maniera più coerente la futura frammentazione della Cina»[33]. Il grande paese asiatico coglie dunque l’occasione della crisi per cercare di allentare la pressione militare e politico-diplomatica esercitata dagli Stati Uniti (e in particolare dall’amministrazione Bush) e di consolidare l’indipendenza politica, sia neutralizzando le interferenze statunitensi, sia rilanciando ulteriormente lo sviluppo economico mediante lo sgretolamento del semi-embargo tecnologico imposto dagli Usa. Dall’altro lato, se anche in questo momento Washington è costretta a concentrarsi su altri bersagli, non per questo ha rinunciato all’obiettivo del contenimento o dell’aggressione ai danni del grande paese asiatico: su «La Stampa» si può leggere che Jiang Zemin deve «mettere nel conto che la battaglia contro i talebani è condotta in nome di principi che potrebbero essere applicati un giorno» contro la stessa Cina (oltre che contro la Russia)[34]. Una superpotenza accelera la sua corsa per il conseguimento del dominio o dell’egemonia planetaria; un paese del Terzo Mondo accelera la sua corsa per la fuoriuscita dal sottosviluppo e dalla situazione di pericolo anche militare che il sottosviluppo comporta. Senonché, per i populisti, i «potenti» sono tutti uguali: il populismo è una forma di qualunquismo.
Un’ultima considerazione. I devoti del mito populista e qualunquista della «nuova Yalta» dimenticano che la Yalta storica del 1945 è stata l’immediata vigilia di una terribile guerra fredda! Il fatto è che, assieme all’oblio delle regole della grammatica e della sintassi del discorso politico, il populismo comporta anche la perdita della memoria storica. In tali condizioni diventa assai problematica e smarrisce comunque ogni efficacia la lotta per la pace e contro la politica di guerra dell’imperialismo.
[1] Marx-Engels, 1975, p. 76 (cfr. MEW, vol. IX, p. 132).
[2] Marx-Engels, 1975, p. 72 (cfr. MEW, vol. IX, p. 129.
[3] Sismondi, 1975, pp. 208-209.
[4] Marx-Engels, 1955, vol. XXVI, 3, p. 50.
[5] Lenin, 1955, vol. II, p. 218 (Caratteristiche del romanticismo economico, 1898).
[6] Marx-Engels, 1975, p. 77 (cfr. MEW, vol. IX, pp. 132-3).
[7] Bonanni, 2001.
[8] Lenin, 1955, vol. XVIII, p. 154 (Democrazia e populismo in Cina, 1912).
[9] Gagliardi, 1999.
[10] Marx-Engels, 1955, vol. IV, p. 466.
[11] Gray, 1998, p. 118.
[12] Overholt, 1994, p. 69.
[13] Marx-Engels, 1955, vol. IV, p. 489.
[14] Deng Xiaoping, 1994, p. 174.
[15] Deng Xiaoping, 1994, p. 122.
[16] Marx, 1953, pp. 80-2.
[17] Lenin, 1955, vol. XVIII, p. 154 (Democrazia e populismo in Cina, 1912).
[18] Marx-Engels, 1955, vol. XVI, p. 31.
[19] Cfr. Losurdo, 1993, § 3.
[20] Lenin, 1955, vol. XXII, p. 260 (L’imperialismo fase suprema del capitalismo, 1917).
[21] Chiesa, 1997, p. 8.
[22] Mao Tsetung, 1975, pp. 95-6.
[23] Stalin, 1953, pp. 153-4.
[24] Lenin, 1955, vol. XXII, p. 308 (A proposito dell’articolo di Junius, 1916).
[25] Reyes, 2000.
[26] Lenin, 1955, vol. V, p. 346 (Che fare?, 1902).
[27] Hofstadter, 1962, pp. 53 e 60 sgg..
[28] Hofstadter, 1962, p. 54.
[29] Vinocur, 2001.
[30] Venturini, 2001, p. 15.
[31] Pomfret, 2001.
[32] Blume e Yamamoto, 2001.
[33] In Mini, 1999, p. 92.
[34] Spinelli, 2001.
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venerdì 25 maggio 2007
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